Mandare a scuola 120 milioni di bambini del terzo mondo in 10 anni, dei quali i 2/3 sono femmine, è questo il fine per il quale il primogenito di Audrey Hepburn, Sean Ferrer, ha deciso di schierarsi a fianco dell’Unicef. Lo fa tramite l’impegno della fondazione “Audrey Hepburn Children’s Fund”, un ente creato da lui stesso dopo la morte della donna che fece sognare tutto il mondo.
Chi non la ricorda nell’interpretazione di “Vacanze Romane”, per dirne una su tutte, che le valse l’Oscar come migliore protagonista? L’attrice, però, negli ultimi anni della sua vita, dal 1988 al 1993, prima che un tumore al colon se la portasse via, era diventata ambasciatrice Unicef nel mondo e dava a questo ruolo molta importanza.
«Dopo la sua scomparsa – ha raccontato Sean – siamo rimasti sorpresi di vedere arrivare nel villaggio di 1200 anime dove abitiamo, addirittura 30 mila persone venute a testimoniare il loro affetto. Non solo, ma durante la malattia avevamo ricevuto migliaia e migliaia di lettere e di messaggi di speranza, con consigli di salute e preghiere bene augurali. In quei momenti di dolore abbiamo constatato che aveva lasciato il segno anche come donna, non solo in qualità di attrice».
A parlare è un uomo che dà importanza alle parole, abituato a non prevaricare. Pare emergere l’educazione impartitagli da Audrey Kathleen Hepburn-Ruston (questo il vero nome della diva), una donna che avrebbe potuto occuparsi di cose più effimere, ma che ha invece scelto di spendere il suo nome a favore dei meno fortunati.
«Alla fine, se lei avesse avuto 5 minuti in più di vita, dopo averci abbracciato tutti, avrebbe parlato dei bambini del mondo e di questa responsabilità che abbiamo tutti, non colpevolezza, ma responsabilità badi bene. A me, lo stimolo a muovermi in questa direzione è arrivato dalla gente comune. Mi veniva chiesto cosa significasse essere il figlio di una grande star e mi sono accorto che non lo sapevo».
Oggi lo sa. Indirettamente ha ricevuto il testimone dalle mani della mamma e direttamente sta operando per suo conto. Grazie alla Fondazione, più che l’attrice è la donna Audrey Hepburn ad abitare ancora tra noi.
«La nostra famiglia con la propria infrastruttura, la “Audrey Hepburn Children’s Fund”, ha voluto rinnovare il proprio impegno unendosi ad un programma Unicef esistente. Tutti i Governi del mondo già nel 1998 avevano dato il loro appoggio, ma, come accade spesso, gli impegni presi vengono disattesi. Vorremmo avere l’attenzione dei lettori per fare conoscere il nostro disappunto su questa dilazione nei tempi».
Partiamo con un appello.
«Vorrei solo dire che muoiono 35.000 bambini al giorno e che il mondo aveva promesso, dopo la Seconda Guerra Mondiale, che non avrebbe mai più avuto luogo un Olocausto. Mentre oggi lo viviamo silenziosamente. La soluzione può passare per l’educazione».
Quanto occorre raccogliere affinché il progetto si realizzi?
«Il costo annuale di scolarizzazione di tutti i bambini del mondo, dando loro quindi la cosa più importante per diventare autosufficienti, costerebbe 8 miliardi all’anno di dollari. Come amo dire, avremmo un prodotto migliore della guerra in Iraq, e il dato è puramente obiettivo se si pensa che soltanto nei primi tre mesi questa guerra è costata 80 miliardi di dollari, denaro che, ad oggi, purtroppo non ha comunque risolto il problema della sicurezza nel mondo».
La cifra è elevata, riuscirete a farvi fronte?
«Noi siamo una piccola Fondazione con una impiegata e mezzo. Abbiamo degli uffici dove, oltre al sottoscritto, collaborano anche mia moglie, il mio avvocato e i nostri amici comuni dando del tempo gratuitamente per questo fine al di fuori delle reali nostre attività. Riusciamo a racimolare all’incirca qualche milione di dollari all’anno.
Che sono tanti in proporzione a quanto siamo piccoli, ma da soli non potremo mai raggiungere gli 8 miliardi di dollari preventivati per scolarizzare i 120 milioni di bambini. Ovviamente, in tandem con l’Unicef ce la possiamo fare. Terremo per noi una piccola percentuale, un 15%/20% per le spese, mentre il resto dei fondi verrà girato totalmente al progetto “All children in school” nato dalla joint-venture tra “The Audrey Hepburn Children’s Fund” e “The Us Fund for Unicef”, per il quale mia mamma è stata ambasciatrice».
In che direzioni opererete?
«Stiamo agendo su tre fronti: un libro, un disco e una mostra. Tasselli ai quali lavoriamo da tempo».
Partiamo dal primo e mi spieghi come mai un libro di memorie è adattabile ad un progetto di scolarizzazione.
«Il titolo è “Audrey Hepburn an Elegant Spirit” ed è stato tradotto in molte lingue. In alcuni paesi è stato intitolato “Un figlio si ricorda” perché la parola spirito evocava i fantasmi. Ho iniziato a scriverlo dopo la morte di mia mamma e non pensavo a questo risultato. Quello che volevo fare era fissare i ricordi su carta, per me e i miei figli, per chi verrà dopo. Mi piace pensare che un giorno i miei figli alzeranno gli occhi su questa nonna che noi non abbiamo spinto per niente perché non è nello stile della nostra famiglia.
Nel libro ho usato delle conversazioni che ho avuto la fortuna di avere con lei negli ultimi mesi della sua vita. Parlandole ho potuto rivisitare tutte le sue filosofie, non solo quelle del lavoro, della carriera e della moda, ma soprattutto quella che riguarda i bambini. Credo che alcuni episodi della sua vita l’abbiamo segnata per sempre.
La rivedo ancora mentre raccontava malinconica ricordando i tempi in cui era giovanissima, quando le truppe tedesche erano entrate nella città di Arnhem, in Olanda, dove lei si trovava durante la guerra. Mi raccontava che i suoi fratelli erano costretti a mangiare i biscotti che si danno ai cani perché non c’era niente altro da mangiare. Mi parlava del pane che era verde perché veniva fatto con la farina dei piselli e che lei, per non sentire la fame, stava sempre a letto a leggere. I suoi ricordi hanno influenzato la sua personalità, tant’è che per mia madre proteggere i bambini dalla sofferenza era una priorità assoluta».
E per quanto concerne il cd?
«Più esattamente sarà un cd ogni anno ed un relativo concerto. Ad esempio quello 2004, dall’evocativo titolo “All children in school”, è stato creato grazie all’amicizia con Livio Giacomi, un caro amico di mia moglie, che da anni ci omaggia di svariate compilation. Volevamo dei brani non solo belli, ma che parlassero dei bambini di tutti i paesi. Ciò nonostante abbiamo voluto scegliere dei brani per una compilation adulta, da ascoltare in ogni circostanza: pur parlando dello stato di bisogno dei piccoli di ogni paese non è certo musica per teen-agers.
Nel 2007 a New York c’è stato un grande evento in accordo con l’Unicef. E’ stata rilanciata una tradizione, “Il ballo del fiocco di neve”, creata negli anni ’30 dai commercianti per dare il via in modo bene augurale alla stagione delle vendite natalizie. L’azienda Baccarat ha creato per l’occasione il più grande lampadario da esterno di cristallo che sia mai esistito, acceso alla presenza degli ambasciatori Unicef di tutto il mondo e di una rappresentanza mondiale di bambini. E’ stata una giornata memorabile durante la quale la nostra Fondazione ha anche assegnato a Roger Moore il primo “Premio Umanitario Audrey Hepburn”. In quell’occasione abbiamo presentato il cd con 15 brani di elevata caratura, uno strumento unico di denuncia e anche di solidarietà».
Parliamo della mostra?
«Nel 2006 c’è stato il lancio in Giappone e ha toccato dieci città. Nel prossimo decennio girerà tutto il mondo. Anche per organizzare questo evento abbiamo dovuto partire molto tempo fa. Grazie ad un curatore abbiamo proceduto a riordinare le foto e a catalogarle. Mia mamma non teneva vestiti, né poster, ma aveva fortunatamente un bellissimo archivio di foto originali fatte dai più grandi fotografi mondiali.
Per rendere la mostra più completa abbiamo creato degli spezzettoni di film da proiettare su degli schermi al plasma, abbiamo recuperato molti dei suoi vestiti chiedendo prestiti e concessioni sia alla Paramount che a Givenchy. Abbiamo messo insieme una memoria storica concreta che abbiamo diviso in 11 capsule ognuna con il suo “leit motif”. Audrey bambina, Audrey e la guerra, Audrey e la Star con i suoi premi, Audrey e la musa proprio in virtù di come ha ispirato fotografi e stilisti, Audrey casa e giardino (con la casa che ha amato in Svizzera, recuperando anche il suo vestito da sposa).
E’ certamente una mostra delicata che porteremo anche in Europa. Toccheremo tutti i luoghi cari alla mamma: non solo Roma, dove ha vissuto a lungo, ma Londra perché era inglese, Bruxelles perché è la capitale dell’Europa e perché lei vi è nata, l’Olanda perché le sue origini sono là, certamente Parigi perché anche qui ha abitato, oltre ad averci girato dei film importanti. Infine andremo in America».
Vorrebbe fare passare un concetto?
«Vorrei soltanto che il nostro impegno fosse recepito come una personale presa di coscienza verso la vita in genere. Io lo faccio perché ho del tempo a disposizione, ma purtroppo non è per tutti così. So che c’è tanta gente che non può scegliere di aiutare un progetto, ma solo di lavorare per sopravvivere. Sebbene io non sia un uomo straricco, tant’è che vivo in case normali, con auto normali, conducendo una vita normale, insomma non sono a Hollywood, ciò nonostante gestire l’immagine di mia madre raccogliendo l’indicazione di quanto le premeva mi è sembrato e continua a sembrarmi doveroso.
In più, in quanto figlio è meraviglioso poterlo fare. Siamo fortunati. Stanchi perché arriviamo da anni pieni di cose da fare, ma fortunati ed è straordinario perché ancora oggi la gente reagisce al nome della mamma e mette mano alla propria coscienza facendo della propria generosità un’importante tramite di vita quotidiana.».
Come ha scritto Francis Scott Fitzgerald, “Bisognerebbe potere credere che le cose sono senza speranza e tuttavia essere decisi a cambiarle”.