I Maya qui non sono morti. E’ così che ha esordito Gari, la nostra guida, nel prelevarci all’aeroporto internazionale di Città del Guatemala.
La mescolanza di riti sacri e profani, infatti, è ovunque e affascina. Il tramando delle tradizioni non solo orali, vedere rendere onore agli dei da quello della creazione Cuculcan a quello del mais, il fatto che l’antica scrittura Maya è stata praticamente tradotta al 95%, lo stesso forte orgoglio manifestato dalla gente di appartenere ad una civiltà così antica, permette alla radice india di essere quasi intatta. Per questo il popolo di oggi parla la stessa lingua di allora, quella che parlavano anche gli atzechi messicani arrivati in questa terra dal vicino Messico. La stessa parola Guatemala è loro e significa ‘molti alberi’.
Arriviamo ad Antigua all’alba, una cittadina dalla meravigliosa architettura barocca ispano-americana dentro un cratere vulcanico. Subito si percepisce l’energia del suo Vulcan de Fuego, famoso per essere quasi costantemente in attività, ma si ritrovano anche angoli di casa nostra perché il quadrato viario di Antigua, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è stato disegnato dall’architetto italiano Giovan Battista Antonelli.
Per strada, nei vecchi caffè, biblioteche, case storiche, scuole di lingua, ma anche nei musei, in particolare quelli interni all’Hotel Casa Santo Domingo antico convento ristrutturato, si respira cultura. Non a caso, girando il mondo, la proprietà del Santo Domingo ha deciso di acquistare tutte quelle opere che si rifanno ai temi trattati dagli indigeni centinaia di anni prima e ad Antigua ha aperto una sala dove viene fatto un parallelo tra le opere Maya originali e altre di artisti contemporanei di ogni dove. Dino Rosin, di Venezia, con il suo cobra in vetro, è tra questi.
In questa città inoltre è nato l’avocado, il frutto che, grazie all’americano Wilson Poppenoe e alla sua Harvard per l’agricoltura antiguana, la scuola Samurano, è stato esportato ovunque. In base ai ritmi della terra ancora si vive e le scuole chiudono per i canonici giorni di vacanza tenendo presente il sistema agricolo, così i bimbi possano dare una mano in campagna.
Il mercoledì sera, invece, la cittadina si veste a festa con la tipica serata Lady’s Night dove le donne per bere pagano soltanto un quezal. Tocca agli uomini presenti, che per conquistare arrivano anche da lontano, pagare la differenza. Un appeal giocoso, una particolare atmosfera, ponte tra passato e presente, un mixer per cui sono molti i nomi importanti ad avere acquistato casa ad Antigua. Il più famoso è l’oramai scomparso attore Paul Newman.
Riprendiamo la strada diretti a Chichicastenango e incrociamo molti siti indios come Cimaltenango e Gari ci spiega che in Guatemala i Maya hanno costruito addirittura 2550 città, le ultime nel Peten nel vicino 1697. Per il grande numero e i pochi fondi molte di esse sono ancora sotterrate con le loro pietre vecchie di Storia tutta da scrivere. Così è per il Mirador, la piramide più alta del mondo rinvenuta soltanto 20 anni fa. Resta a soli tre giorni a piedi dalla vicina Tikal e Mel Gibson, regista appassionato della civiltà Maya, per portare alla luce il Mirador ha donato da poco 5 milioni di dollari, parte del ricavo del film Apocalipto. Forse questo sito lo vedranno i nostri nipoti, ma si mormora sia tre volte più grande di Roma, molto più grande della stessa famosissima Tikal.
Ma il Guatemala ha regalato al mondo anche il cioccolato, il cosiddetto cibo degli dei i cui primi conoscitori sono stati proprio i Maya. In viaggio verso Chichicastenango incontriamo piantagioni di cacao, ma anche i campi che nutrono gran parte dell’America, quei grandi appezzamenti di verdura e di frutta che disegnano all’infinito i lati della strada. E prima di scendere verso l’avvallamento di Chichicastenango, sul passo della Panamerica, la famosa strada costruita dagli americani durante la prima Guerra mondiale e usata come pista di rullaggio dagli aerei militari, c’è un’area di ispezione a protezione delle colture di tutto il Nord America. La paura è quella che dall’Europa arrivino larve che distruggerebbero i raccolti. Curioso notare che la nostra pera, da queste parti, resta un frutto indesiderato e che non passerà l’ispezione, venendo restituita al mittente o confiscata.
Finalmente arriviamo a Chichicastanango, 2100 mt di altitudine tutta abitata da indiani, costruita nel 1525 dai domenicani sopra le piramidi antiche. I due mercatini settimanali sono certamente la più grande attrazione per un viaggiatore che si perderà tra stoffe colorate, quadri e cibi della tradizione. Ma qui i Maya sono così vivi da essersi spinti addirittura dentro la chiesa domenicana San Tommaso e averla divisa in due. La domenica, infatti, nella parte anteriore della chiesa, quella con i classici banchi in legno, è dedicata alla messa e l’altra, quella posteriore, da attraversare per raggiungere la zona cattolica, è per gli antichi rituali degli indigeni. Un contrasto che qui non stride per niente.
Se avete voglia di fare due passi, non perdetevi il piccolo cimitero con i sepolcri in cemento a forma di cassa, le scritte fatte a mano e i mille colori delle tombe di famiglia. Potreste avere anche la fortuna, come abbiamo avuto noi, di assistere ad un rito di una donna sciamana, molto conosciuta in paese, che tra brace, zucchero, palline di resina, candele, melassa, rosmarino, incenso e cioccolato, pregava per chi le ha commissionato una buena suerte.
Prendendo verso Quetzeltenango lasciamo Chichicastenango consapevoli che i suoi colori ci mancheranno per sempre. Siamo diretti a Ititlan sul lago omonimo attorniato da tre vulcani sovente coperti da nuvole. Si arriva dall’alto e il panorama emoziona. Sulle sue sponde c’è Panajachel, conosciuto fino dagli anni ’60 come meta dei cosiddetti figli dei fiori e dove, prima di andare in Bolivia, visse per tre mesi anche Che Guevara.
E per chi vuol fare una gita in barca, in 20 minuti dal porticciolo si raggiunge Santiago e se si arriva di venerdì si trova il mercato dove donne e uomini sono vestiti con quelli che noi penseremmo essere abiti del loro flolklore, per scoprire però che qui il guardaroba non ha seguito la moda. Anche nei giorni di festa, mentre da secoli le campane delle chiese suonano e gli altoparlanti nei campi richiamano i fedeli, la gente non cambia il proprio modo di vestire. Per i guatemaltechi oltretutto il lago Ititlan è uno dei luoghi sacri della terra, non solo perché vi sono riuniti i 4 elementi che danno la vita, aria, terra, fuoco e acqua, ma anche perché il lago dall’alto ha la stessa forma della nebulosa di Orione, una costellazione citata dai racconti popolari di origine Maya mai menzionata dagli studiosi del cielo prima dell’uso dei telescopi.
Mentre ci allontaniamo per ritornare nella capitale Città del Guatemala e da qui raggiungere Tikal, ci accompagna la musica del marimba, lo strumento nazionale. Per strada, uno dietro l’altro, tanti comedor, trattorie a buon mercato che ogni giorno hanno un solo piatto in menù. Se non vi piace cosa propongono, non resta che andare a quello successivo.
Man mano che ci avviciniamo a quello che è considerato il secondo più esteso sito archeologico Maya del mondo, in quanto il primo, sebbene non ancora operativo al 100%, resta il Mirador, il paesaggio cambia totalmente. Entriamo nella cosiddetta terra bassa, non ci sono più vulcani e siamo al massimo a 9 metri sopra il livello del mare, ovunque calcio bianco, conchiglie e sabbia, terreno di foreste, 23 mila kmq non certo adatti da coltivare. Sul ciglio della via maiali liberi e randagi come cani, bambini a pelo su cavalli non di grossa stazza e cartelli che annunciano le piramidi.
Tikal, restato per secoli disabitato, è stato ritrovato soltanto nel 1846 grazie ai cicleros, coloro che lavorano gli alberi della gomma, simboli nazionali da sempre sacri ai Maya, ma questo sito archeologico si è guadagnato in fretta fama mondiale anche perché, insieme all’altro sito Yaxha, è inserito nella Biosfera Maya, una delle tre riserva d’ossigeno del pianeta.
Tikal attira Vip che ne scrivono, la prendono a prestito come immagini, si ispirano, come Harrison Ford, o Mel Gibson, Francis Ford Coppola o Bill Clinton, ma la sua unica garanzia di sopravvivenza sono i milioni di visitatori anonimi che ci arrivano, i continui scavi e la stessa manutenzione presentano conti che diversamente il Guatemala non potrebbe sostenere.
Uscire da Tikal significa uscire dal mistero, soprattutto perché il sito ripercorre la storia dei Maya, che da grande dinastia, per motivi ancora sconosciuti, ad un certo punto sono praticamente spariti senza ragioni apparenti, non a caso si racconta di questo popolo definendoli sudditi di extra terrestri sbarcati dalla luna. A spiegazione di questi interrogativi insoluti, non è mai stato scritto di epidemie e non sono stati trovati scheletri che le lascino supporre, non ci sono stati terremoti infatti le piramidi sono intatte, non c’è stato un esodo religioso perché solitamente chi se ne va ricostruisce quanto lasciato laddove arriva, forse, visto che nessuno vi ha più costruito niente sopra, potrebbero essere stati ritenuti luoghi maledetti, ma tale supposizione non fa altro che accrescere la curiosità mentre ti ci aggiri dentro, all’ombra di alte fronde. E anche quei cartelli che leggi mentre te ne allontani, con le scritte “Tu eres la ciudad”, tu sei la città, ti tengono legato al ricordo indelebile di questo viaggio.