Arrivare fino ai confini del deserto del Sahara e sentire che la salivazione è venuta meno non per via del caldo, ma per la strana inquietudine che ti percorre le viscere mentre speri di terminare la pista che ti porterà a ritrovare dell’acqua potabile, del cibo e un giaciglio dove riposare. Questo lo spirito con il quale ho affrontato un itinerario di 300 chilometri nel cuore dell’Africa nera, in quella parte centrale, punto d’incontro tra il Sahel e il Sahara, che per non confondersi con il resto sceglie quotidianamente di combattere il nemico dichiarato, il deserto. Non io, ma la natura, ogni giorno che inizia combatte la sua personalissima lotta contro l’erosione del terreno.
Sto parlando dell’anima del Burkina Faso e di diverse miglia percorse in compagnia di una jeep, di un fotografo cercatore di scatti strepitosi, di alcune taniche di benzina e di una tenda. Un viaggio fatto per visitare in sequenza una manciata di villaggetti dove l’unica ragione che scandisce il tempo che scorre è la pioggia e la sua attesa. Senza acqua piovana non si sopravvive in questi luoghi, le condutture idriche sono marziane e le fogne, si sa, sono sempre en plen air. Durante l’inverno qui soffia l’harmattan, un vento caldo che portando con sè la sabbia sahariana contribuisce all’avanzare dell’aridità. Come per uno scherzo del destino, che anziché riequilibrare infierisce, durante l’estate spira l’aliseo portatore di violenti rovesci, gli stessi che da una volta all’altra spostano le piste sterrate di decine e decine di metri.
Partendo dalla capitale, Ouagadougou e andando verso nord, l’unica cosa certa è quella di non incontrare tantissime zanzare, e considerato che siamo in un paese dove la profilassi antimalarica è consigliata, già soltanto questo è di buon auspicio per desiderare di partire.
Nell’ordine, dopo avere percorso pochi chilometri in quella che di diritto chiamo autostrada, asfaltata e con il doppio senso di marcia in un totale di cinque metri di carreggiata, si arriva a Ziniarè e la tappa è obbligatoria. Qua, infatti, c’è la sede di una cooperativa di 13 società contadine, una rete di associazionismo esempio moderno della nuova classe agricola del terzo millennio. Il suo fondatore è un uomo longilineo dalla pelle scura in contrasto alla bianca capigliatura e a quell’altezza Dna che lo rende ancora più magro di quanto il nero della pelle non possa già avere affinato. Si chiama Hamidou Ouédraogo, superbo mixer di origini contadine e cervello fino. Lui, ha creato l’Union, abbreviazione di UNGVT, che riunisce oltre venti villaggi e 3000 addetti decisi a non morire affamati dal sistema. A Napoli nel 2003, proprio ad Amidou, è stato riconosciuto un premio dall’Associazione enogastronomica italiana per eccellenza, la Slow Food, per l’apporto di lavoro dato a difesa della biodiversità.
Nelle immediate vicinanze di Ziniarè, a circa cinque chilometri, si trova Tanlili, luogo natale di Hamidou, un villaggio in cui nulla di futuribile ha avuto e avrà successo. Questa zona resterà area protetta. Lo ha deciso l’Union e quanto è in itinere servirà soltanto per ripristinare i naturali equilibri tra la gialla savana e la voglia di rendere più fiorente l’economia agricola. Il miglio viene raccolto in grandi covoni fermati alle estremità da corde e bastoni di legno, il grano dà forma a piccole capanne senza entrata al cui perimetro e alla cui ombra vengono legati e trovano riparo gli animali. La stessa lavorazione dell’argilla, sedimento consolidato in abbondanza da queste parti, ha trasformato la rudimentale costruzione di mattoni rossi, utilizzati nell’Africa evoluta, in un sostentamento abituale per la gente di questo villaggio.
Dal mattino alla sera, attorno alla pozza creata dall’acqua piovana, ai bordi della cava d’argilla, un’operosità insolitamente veloce pare rendere frenetici i ritmi di un alveare umano intento a produrre mattoni e non miele.
I bambini di Tanlili sono addirittura i protagonisti di un curioso volume, “Gli spiriti della Foresta”, che raccoglie le favole da loro raccontate, storie poco fantastiche e molto reali che aiutano a crescere nel rispetto dei problemi legati alla quotidianità. Anziché avere una bella principessa addormentata nel bosco, ritroviamo in fiaba un bimbo sveglio che spiega come evitare l’erosione di quel terreno sul quale, grazie alle opere dell’uomo, continuare ad appoggiare i piedini.
Da qui riparto riprendendo la via, direzione Boussouma, luogo dove la grigia lingua asfaltata terminerà lasciando posto alle infuocate piste sterrate non battute. Non appena lascio alle spalle Tanlili, un’anteprima curiosa sul prossimo villaggio, Laongo, calamita la mia attenzione. Per un attimo ho la netta sensazione di essere stata catapultata nella parte centrale di un’altra favola, dove un bizzarro sortilegio ha pietrificato tutto. Soprattutto uno splendido volto di donna, alto due metri e largo uno, mi attira. E’ scolpito su granito e resterà lì per l’eternità e per quei turisti che vorranno incontrarne il freddo sguardo. Sono davanti alle tracce, disseminate stile Pollicino con i suoi sassolini, che mi condurranno al villaggio noto per il suo Simposio internazionale di scultura, un festival che a Laongo ospita ogni anno decine di artisti in arrivo da tutto il mondo. Gente dalle mani d’acciaio che senza delicatezza plasma la roccia granitica del luogo dandogli forme sempre nuove che aggiungono alla natura meravigliosi, sebbene pietrificati, uccelli, simboli, conchiglie e alberi. Anche gli splendidi baobab, imponenti abitanti vegetali che ritrovo a centinaia, non solo in pietra, mi accolgono e mi perseguitano con le loro ombre aggrovigliate disegnando avvizzite braccia protese verso il cielo.
Risalendo ancora, si arriva alla diga di Tougouri. E’ opera dell’uomo e si riempie d’acqua grazie ai diluvi periodici diventando per gli stanziali, nell’annuale intervallo di tempo tra le grandi piogge, l’unico luogo dove ferve la vita. Qui, vi si abbeverano e si lavano sia gli umani che gli animali, in un infinito passaggio di testimone. Tutto accade soltanto in funzione di questa provvidenziale riserva d’acqua ed è interessante fermarsi ad osservare il lento incedere del tempo che mai va di fretta, cadenzato goccia a goccia. Grazie all’acqua, in questo villaggio, è florida la lavorazione delle ninfee acquatiche e per gli amanti di questo fiore la visita regala segreti millenari. L’erosione, però, affligge quest’area ed è per questo che si lavora, come in un moto perpetuo, alla costruzione sempre nuova di bacini e dighe per la ritenzione dell’acqua piovana, con la speranza di avere riserve per tutti i periodi dell’anno.
Alla tappa successiva, Bani, ci si arriva percorrendo chilometri di dissestata terra rossastra, comunque segnata dalla percorrenza abituale degli indigeni e dei locali bus che collegano la capitale, comunemente detta Ouaga, a Gorom Gorom. La moschea di Bani, interamente in argilla, resta una splendida testimonianza di edificio fatto in fango e tacitamente sottintende la penetrazione dell’islam anche in questa terra. Tutt’attorno vi sono altre piccole moschee, ma la leggenda vuole che solo questa sia stata costruita dal Profeta. Bani, tra l’altro, è l’unico villaggio vagamente turistico, la presenza dei cammellieri e dei loro cammelli fa intuire la vicinanza della civiltà. Gli stessi bambini, avvolti nei loro semplici indumenti, di qualche taglia superiore alla loro misura colorati quanto una tela di Gauguin, ti propongono in cambio di poco denaro oggetti in paglia lavorati artigianalmente. La povertà è stata palpabile sin dalla partenza, ma ho avuto forte anche la sensazione che a vincere sia sempre la dignità.
Prima dell’ultima tappa si arriva a Dori, unico villaggio a disporre di una pompa per il rifornimento di carburante, anche unica motivazione per non tirare dritto verso il successivo affascinante villaggio di Gorom Gorom, l’ultimo del nostro itinerario, nel cuore del Sahel, chiuso a nord dal Sahara.
A Gorom Gorom il giovedì è giorno di mercato. Vi si riversano in centinaia da ogni luogo limitrofo, si materializzano esseri umani soprattutto dal deserto. Il fascino sta non solo nella varietà dei prodotti esposti e negli schiaffi di colori arlecchini mischiati come nelle più belle tavolozze, ma anche nell’incredibile mescolanza etnica che vi si ritrova: i Tuareg, cosiddetti uomini blu, famosi nomadi del deserto in abito indaco e turbante, i Peuls, popolo dedito al bestiame sovente tatuati in faccia dai turbanti rossi, le cui donne portano fini monili color argento alle orecchie, i Songhai popolo coltivatore con in testa turbanti luminosi gialli e rossi, i Mossi principale gruppo etnico del Burkina che non ha mai voluto accettare forme di colonizzazione araba-musulmana prima e francese poi. Tutti insieme si ritrovano al mercato con la razza turista, in una quanto mai insolita commistione di culture.
Sempre qui, per la prima volta dalla partenza, ho potuto cibarmi riparata sotto una tenda, dove ho gustato piatti semplici della tradizione locale, la tipica polenta di miglio, il riso con salsa, lo stufato con patate dolci e la salsa con montone e pomodoro. E ho potuto visitare l’interno di una casa di fango con il tetto in paglia, abituali abitazioni degli indigeni, all’incirca quattro metri di larghezza per tre di lunghezza. Ne sono uscita con una sensazione di imbarazzo, forte della differenza con la mia normale casa borghese.
Il ritorno a Ouaga, all’inverso, lo faccio in poche ore, ma altrettanto spazio temporale non basterà per togliermi dal naso gli odori incontrati, soprattutto quelli degli elementi dell’universo, dell’acqua distruttrice e benefattrice, della terra, arsa e inzuppata, delle spezie, forti e agro. Mai più riuscirò a scaricare dai miei file le sensazioni di un mondo che credevo perduto e che, sebbene abbia radici nel passato, ho potuto vedere a colori.