«Io sono uno che odia i viaggi, non sono un viaggiatore».
La premessa di Gino Paoli arriva come una sferzata di vento dalla quale è impossibile difendersi. Salivazione in diminuzione, mente vuota e un fumetto in testa con dentro una pagina bianca. Niente intervista. Ma poi, lui che abita a Genova, di fronte al mare, ci getta un’ancora.
«Istintivamente starei a casa, sono stanziale come un gatto, marchio il territorio e sto nel mio regno. Questo perché in un posto nuovo sono in crisi fino a che non mi sono ambientato».
Cosa lo indisponga all’idea di spostarsi lo si capisce permettendo al flusso dei suoi pensieri di fluire libero.«Io sono uno che odia la dimensione di turista. Soltanto se mi muovo per lavoro mi sento a mio agio. In quel caso sono diverso ed è vero che lo si è. Si parla con gente che fa il tuo mestiere e si diventa uno di loro».
Ma anche uno che lavora può trovare il proprio posto del cuore. E così, viene fuori un nome. Vamos, andiamo a Città Del Messico. «Potrei abitarci perché con i messicani mi trovo benissimo. Nella parola che usano più frequentemente, haorita – tra poco- c’è tutto il loro carattere. Infatti sono incapaci di accelerare, e viceversa, cercano la lentezza. Anziché indispormi, come accade a tanta gente abituata ai nostri ritmi, mi diverte. Ricordo un episodio in un mercato vicino a lo Zocalo, la seconda piazza più grande del mondo. Paola si era innamorata di alcuni piatti di rame finemente cesellati. Avevamo deciso di comprarne 36 e ne abbiamo fatto richiesta al proprietario. Ma lui ha risposto che poteva darcene soltanto uno, altrimenti cosa avrebbe venduto all’indomani? Questo sono i messicani».
Dal padre delle più belle canzoni d’amore, da Senza Fine a Il cielo In Una Stanza, viene naturale pensare a dei viaggi fatti per sedurre e conquistare. Chi scrive per una donna «c’è che io ora vivo bene, se solo stiamo insieme», negli altri crea l’aspettativa di un racconto degno di Cupido e invece… non ci sono rose senza spine.
«Avevo 16 anni e mi ero innamorato follemente di una ragazza torinese che rispondeva al mio amore, il nome mi sfugge. Io abitavo a Pegli, in Liguria e d’estate arrivavano molti piemontesi in villeggiatura. Eravamo molto presi tutti e due. Lei mi aveva ricambiato con sguardi, passeggiate e qualche bacino. Alla fine della vacanza era tornata a casa, ma mi era rimasta nella testa e un giorno decisi di andare a trovarla. Avevo comprato una Baccarat, una meravigliosa rosa con un gambo lunghissimo pieno di spine.
Avevo messo insieme i soldi per prendere un treno, posto in terza classe. Sapevo che lei stava in corso Francia e conoscevo il numero civico. Abituato a Genova dove le strade sono lunghe 300 metri, ero partito dall’inizio del corso alla ricerca del numero. Credo di avere camminato per 10 km prima di trovarla. Mi sono fatto tanta di quella strada e sempre con la mia rosa in mano. E’ venuta ad aprirmi la mamma. Dopo i convenevoli, mi ha introdotto alla figlia che era seduta in salotto. Mi affaccio, lei si alza e mi saluta sorridente dicendomi “Ciao Gino che bella sorpresa”. Il mio cuore andava a mille. Ma ha quasi smesso di battere quando le ho sentito dire “Ti presento il mio fidanzato”. Ho nascosto la rosa, ricambiato i saluti, detto le solite frasi di circostanza e, farfugliando una scusa, me ne sono andato. Una volta fuori, ho preso la rosa e l’ho sbattuta contro il muro sfogando tutta la mia rabbia. Da allora, ho deciso sempre di avvertire prima di arrivare».
Genova è la sua terra adottiva – i genitori ci si sono trasferiti quando lui aveva solo un mese da Monfalcone (provincia di Gorizia) -, ma Gino la ama a livello viscerale, forse quanto ama il mare, «Io sono profondamente ligure e i liguri hanno il culo che gli scivola dalla montagna verso la costa” – dice. A Genova, oltretutto, c’è uno dei pochi monumenti (permetteteci di definirlo così) che gli piacciono. «Il viaggio per me rappresenta la curiosità verso la gente, dei monumenti non me ne importa granchè. Le uniche opere architettoniche che vado a vedere sempre volentieri sono quelle del mio amico Renzo Piano. In particolare ho apprezzato la Sfera in vetro e acciaio situata in mare vicino all’acquario genovese. Soprattutto perché ospita varie specie di piante tropicali e farfalle, iguane e felci».
Finalmente il non-viaggiatore si è aperto e ci permette di incalzarlo con una serie di domande.
C’è un libro che le ha messo la voglia di partire?
«Sono i libri di James Herriot (pseudonimo di Alfred Wight), uno scrittore britannico che di lavoro faceva il veterinario. I suoi racconti, da Beato Tra le bestie a Cose Sagge e Meravigliose, mi hanno fatto venire voglia di conoscere lo Yorkshire. Descrive la natura, i paesaggi, gli uomini in un modo così preciso che pare di vederli dentro un film».
Sarà questa la sua prossima meta?
«Purtroppo mia moglie Paola preferisce il caldo, ma fortunatamente questa idea incuriosisce anche mio figlio Nicolò, quindi uno di questi giorni dirò ciao e partiremo».
Chi le organizza la valigia? Da uomo stanziale sarà in difficoltà.
«No, perché se ne occupa Paola. Lei è la globetrotter della nostra famiglia. Sceglie prima di tutto il luogo e poi, una volta sul posto, inizia con le domande ai locali, ai direttori di albergo, a chi incontra. I nostri itinerari vengono costruiti sul passa parola. E io mi lascio portare in giro, come uomo-oggetto. Sto benissimo e, a volte, mi diverto anche. Un dato è certo, nella nostra famiglia chi comanda sono io, ma chi decide è mia moglie».
Lei fa immersioni. Dove suggerisce di andare ai nostri lettori?
«Sotto, il posto migliore è le Maldive. Non importa dove. Un fondale vale l’altro, anche se il mio specialissimo incontro l’ho avuto in quelli di un’isola meravigliosa quale Kuramathi, nell’atollo di Rashdoo. Lì sono stato faccia a faccia con un pescecane perché andavo a pescare subito fuori dal reef. Ad un certo punto ho visto arrivare un barracuda di un paio di metri, una freccia d’argento. Viaggiano che sembrano fermi, la loro pinna pare quella di un sommergibile. Veniva dritto e non spostava nemmeno l’acqua. Mi arriva e mi punta. Mi attacco al reef, avevo il fucile con me, per cui ero pronto. Mi si è avvicinato e sembrava annusarmi come fa Leon, il mio Labrador. Si spostava, tornava indietro e poi veniva di nuovo vicino ad annusarmi. Sono stato fermo a vedere cosa accadeva, ma alla fine mi sono detto, “non posso perdere il mio tempo e stare tutto il pomeriggio qua”. E ho iniziato a pescare. Io andavo giù e lui veniva giù con me. Prendevo i pesci e tornavo in superficie. E lui dietro. Poi di nuovo, andavo giù e lui mi seguiva. Su e lui saliva. Abbiamo passato due ore insieme. Quel pomeriggio ho pescato con il barracuda. Quando ho finito, avrei voluto dirgli ‘ciao, ci vediamo domani’. Mi era sembrato un compagno di giochi. E’ stato come se, dopo avermi annusato, mi avesse riconosciuto amico».
Il posto più strano dove le è capitato di dormire?
«In un ryokan giapponese. E’ strano, ma affascinante. Le camere hanno il pavimento in tatami e per entrarci bisogna togliersi le scarpe. Tavolini bassi e sedie senza gambe ti tengono perennemente a contatto con il suolo. Di sera ti preparano i futon, materassi stesi direttamente sul tatami. Sotto il profilo del riposo non è comodissimo, anche se io ho la fama di dormire da qualsiasi parte».
E’ un uomo che si adatta, ma ci faccia un esempio?
«Oggi la ricezione alberghiera è migliorata, però quando giravo il mondo facendo i tour non era così. Ci ritenevamo fortunati quando arrivavamo in una città dove c’era uno dei Jolly Hotel, tutti uguali, confortevoli e puliti. Ma tante volte mi è capitato di non potere scegliere e di dovermi adattare a cosa passava il convento. In un ryokan giapponese, una notte mi sono svegliato per via di uno strano solletico. Erano gli scarafaggi che mi passavano sopra. Quando ho visto cos’era, mi sono riaddormentato. O ad Algeri , 25 anni fa, con tutti i miei musicisti siamo finiti in un vero tugurio, sporchissimo. Sono stato l’unico ad avere fatto un sonno fino al mattino. Anche in Italia mi è capitato di tutto. In Sicilia, ma non vi dico la città, sempre agli albori della mia carriera, mi avevano chiesto per quante ore volevo la camera e non c’è stato verso di averla riservata per due giorni. Quando uscivo, dovevo lasciarla libera. Un’altra volta, era il 1961 ed ero arrivato di notte in un paesino della bassa Italia. In albergo mi hanno detto che avrei potuto scegliere tra due fasce prezzo, una più bassa ed una più alta. Quella più costosa comprendeva il cambio delle lenzuola. Sono andato a dormire in spiaggia».
E in quanto a cucina. Qual è il piatto più strano che le è capitato di ordinare?
«Non mi fa schifo niente e ho mangiato dal serpente al coccodrillo. Il cibo più strano però sono state le bisce ordinate in Giappone, in un ristorante di Tokyo, di cui non ricordo il nome. Certamente ci sono piatti che mi piacciono di più e altri di meno. In Cina, ad Hong Kong ad esempio, non sono riuscito a finire la frittura di insetti, ma soltanto perché era troppo dolce. E una volta, in un quartiere periferico, se non ricordo male di Shangai, mi è capitato mi chiedessero di andare a scegliere il cucciolo di cane che volevo. Beh, mi sono alzato e mi sono defilato».
Con quale mezzo si sposta volentieri?
«Se io potessi scegliere il mio mezzo ideale sarebbe un carretto con il cavallo. Ma siccome vivo questa epoca, quando posso preferisco spostarmi in automobile, anche per tragitti lunghi. Ho avuto una particolare passione per tre auto e ognuna di essa mi riporta con la mente ad un luogo. Il Ferrari Scaglietti, passo corto, coda tronca, mi infila nel tratto di autostrada subito dopo Modena, all’emozione provata non appena l’avevo ritirata! La Giulietta Spider rossa, interno nero, invece, mi tiene a Genova. E’ stata la mia prima vera auto e andavo ai Bagni a fare lo scemo. E infine la Mini, 990 di cilindrata, che avevo comprato da un mio amico ancora prima che arrivasse da noi, mi porta in giro per tutta l’Italia, in particolare nel viaggio fatto oltre 30 anni fino in Sicilia. Per la Mini avevo una tale passione che piuttosto che non usarla andavo in giro con la schiena rotta».
Chiudiamo con un aneddoto divertente che le è capitato viaggiando?
«E’ accaduto mentre ero in tour con un giovanissimo Gianni Morandi in Giappone. Lui aveva 18 anni. Appena arrivati in albergo, ci hanno raccontato che c’era anche la piscina e qualcuno ha detto a Gianni che facevano il bagno nudi. Morandi si agita e ci convince a seguirlo per andare a vedere. Risultato? Appena arrivato davanti all’acqua ci si è buttato dentro. Ne è riemerso alla velocità della luce. Ma era già del colore di un’aragosta. I giapponesi hanno l’abitudine di preparare il bagno a 60 gradi, così l’acqua era ustionante. La piscina era affollata di giapponesi, tranquilli, immersi fino alle spalle con soltanto la testa fuori a sorseggiare il the. Abbiamo preso in giro Gianni per tutta la tournée».