‘Non aspettare di essere contento per ridere, ma ridi per essere contento’ recita un vecchio detto malgascio. Ci troviamo a Nord del Madagascar nella regione di Diego Suarez, nelle terre dei Sakalava una delle diciotto tribù del Paese, tra i discendenti dell’oro e dell’argento.
La distinzione arriva dai tempi antichi, quando questo pacifico popolo era poligamo e soltanto la sposa principale poteva vestire l’oro o le stoffe rosse che lo rappresentano, mentre le altre indossavano monili d’argento e tuniche bianche.
Se ancora oggi i due ceppi familiari tendono a non mischiarsi, il visitatore se ne renderà conto unicamente indagando nel loro albero genealogico, indipendentemente dalla tribù, però, tutti gli indigeni cristiani, musulmani o induisti, venerano gli alberi sacri, riconosciuti come vere e proprie Cattedrali vegetali.
Il più famoso albero sacro si trova a Mohatsingyo nell’isola di Nosy Be e prima di arrivare all’ingresso del suo sito, custodito 24 ore al giorno da guardiani e da una sbarra, si percorrono decine di km di strada sterrata in mezzo ad una florida campagna tra centinaia di zebù e vecchie falape (tipiche abitazioni locali, capanne quasi sempre senza fognatura, né acqua potabile).
Per entrare ed uscire dall’intrico dei rami dell’albero sacro, bisogna farlo usando il piede destro ed indossando i loro lamba (variopinte stoffe della tradizione) e considerato che misura una superficie di 4.000 metri quadrati (ancora in crescita), sembra di entrare in una foresta. In realtà si tratta di un’unica pianta di ficus religioso le cui liane arrivate al suolo hanno messo ulteriori radici diventati nuovi tronchi. Secondo la leggenda è sacro perché il suo germoglio è stato ricevuto in dono dal Buddha nel 528 A.C. in India. Purché siate rivolti ad est è sempre di buon auspicio per tutti fare una preghiera dentro queste Cattedrali vegetali.
L’isolamento del Madagascar staccatosi dal continente africano circa 140 milioni di anni fa ha favorito la sopravvivenza di specie primitive e uniche sia di flora che di fauna e qui anche una semplice passeggiata diventa un modo per gioire di tanta abbondanza. Impossibile non notare stelle di Natale e tronchetti della felicità alti come palazzi, vaniglia selvatica a grappoli, tulipani diventati oramai alberi, distese di lycis che fanno di questa terra uno dei più grandi produttori al mondo, coltivazioni di tronchi nerboruti ma fioriti di ylang ylang, l’essenza base di centinaia di profumi di grido.
Forse per questo Nosy Be è conosciuta anche come l’isola profumata, e, nonostante i suoi 12 laghi (sacri, da indicare con il pugno e non col dito) e le mille palme del viaggiatore (l’albero nazionale), vi entrerà nel naso ancora prima che negli occhi. La palma, coniata anche sugli Ariary (la valuta locale che si cambia a circa 2700 contro 1 euro), al posto della fronda ha un grande ventaglio verde da colpire nel punto giusto con una lama per riceverne diversi litri di acqua potabile in cambio, una manna per chi ha scordato la classica bottiglietta e sta facendo un’escursione sotto il sole africano.
E se avete dimenticato la crema solare, imitate le donne indigene che si spalmano sulla faccia una poltiglia di acqua e argilla, magari dando vita a disegni chiaro scuro alla maniera delle più giovani che uniscono vanità a necessità.
Il porto di Ankife, un attracco dove le barche si contendono i turisti, è sulla Grande Terre, come viene definita dai malgasci l’isola di Madagascar per distinguerla dalle isolette minori. Da Ankife una lingua asfaltata di 180 km, costruita dai cinesi pochi anni fa, attraversa la regione di Diego Suarez fino a Diego, la capitale con la sua famosa Grande Baie, 155 km di costa, la seconda al mondo dopo Rio de Janeiro.
E Diego come Rio, ha il suo Pan De Sucre (tradotto pan di zucchero) una montagnola sacra attorniata da acqua e ‘fadi’ (proibita) ai turisti. Ci arrivano in barca soltanto le donne malgasce, provviste di offerte di miele e monete, e chiedono la grazia della fertilità agli antenati, il cui culto è ancora molto sentito. La baia è immersa in un incontaminato ecosistema di mangrovie e di spiagge bianche dalla sabbia finissima come quella di Ramena, dove all’orizzonte non manca mai una piroga di legno o un barca dalla vela quadrata che procede secondo il ritmo malgascio, mora mora, piano piano.
Ma anche lungo la strada che vi avrà portato a Diego sarà stata sempre la natura a gridare forte la sua presenza con la sua terra rossa, l’Ankarana e la Montagna D’Ambre, i due Parchi nazionali e gli inimmaginabili tsinghi, grigi e rouge, capolavori di roccia calcarea scolpita dalle mutazioni geologiche e dai movimenti tettonici dei passati millenni.
Ammirando la distesa degli tsinghi grigi, pinnacoli di roccia che partono da terra e svettano appuntiti verso l’alto, vi sentirete come foste al cospetto di un mare pietrificato che guarderete a perdita d’occhio per più di 200 kmq, ma sarà soltanto davanti ai meno estesi tsinghi rossi che ne capirete la vulnerabilità. Questi soldatini di roccia sono talmente friabili da fare cambiare il paesaggio di anno in anno.
Se tutto il Madagascar insieme all’idea di una natura vigorosa rimanda anche all’idea di avventura, qualunque ‘occhiale’ indossiate porterete a casa uno sguardo incancellabile sul simpatico lemure o sul brookesia minimo, il camaleonte più piccolo del mondo, sulle mille galline dalle lunghissime gambe e sui milioni di carretti trainati dagli zebù tra i millenari baobab, conosciuti anche come ‘radici del cielo’, perché puniti da Dio in quanto alberi troppo vanitosi e per questo piantati al contrario. Tornerete innamorati almeno un poco di questo lembo di terra.