La prima volta a New York è un rincorrersi di esclamazioni monosillabiche, indici puntati e saltelli euforici nel realizzare quante strade, vicoli, piazze, monumenti ed edifici avevamo già, inconsapevolmente, “visitato” sul grande e piccolo schermo. Quando mi ritrovai nella Grande Mela provai, tra le mille contrastanti emozioni che me ne fecero innamorare, quella buffa sensazione di non aver mai lasciato il mio divano di casa. Non avevo mai sperimentato nulla di simile in nessun altra città al mondo.
Fino a Barcellona.
La sua lunga storia di telecamere, ciak e primedonne nasce negli anni ’90 dell’Ottocento, quando un regista spagnolo a noi pressoché sconosciuto immortalava la piazza del porto di Barcellona in un breve documentario dal titolo, tutt’altro che originale, “Plaza del puerto de Barcelona”. Ancora prima del sonoro, ancora prima — per assurdo — del cinema muto.
Quasi un secolo più tardi, non poteva essere che uno spagnolo — e uno dei più controversi — a mettere Barcellona al centro dell’occhio di bue internazionale. In “Tutto su mia madre”, Pedro Almodóvar porta la sua protagonista Manuela (Cecilia Roth) proprio nella capitale catalana.
Superba e muta — come il primo Charlie Chaplin — Barcellona sfila nel film la sua collezione di arte senza tempo, in cui fanno capolino il Monumento a Colombo e la Natività della Sagrada Familia durante la corsa notturna del taxi su cui viaggia Manuela, il modernista Palau de Música Catalana di fronte all’appartamento di Agrado (Antonia San Juan) e ancora il Teatro Tivoli dove Manuela compra un biglietto per lo spettacolo “Un tram chiamato desiderio”.
Ma questa è storia risaputa per un cinofilo. Non tutti sanno, invece, che nelle riprese iniziali il Monumento a Colombo compariva in tutta la sua altezza (60 metri), mentre nella versione finale l’alta colonna e la statua di Colombo con il dito puntato — tutti dicono verso la sua casa natale di Genova, ma, considerato il personaggio e il suo senso dell’orientamento, poteva trattarsi del confuso tentativo di mostrare la via verso l’America — scompaiono per lasciare posto ad un primo piano del suo piedistallo leonino.
O che il taxi che percorre Carrer Marina viaggia in un senso mentre, in realtà, la strada è a senso unico nel senso opposto. O ancora che lo stesso Almodóvar si stupì che un appartamento come quello di Agrado — la vista sulla facciata del Palau, quando Manuela stende il bucato dal balcone del primo piano, è assolutamente fedele alla realtà — costasse, nella Spagna pre Euro, “solo” 40.000 pesetas (240€) al mese.
Dopo Almodóvar ha volato a Barcellona, con tanto di cast e telecamere al seguito, Cédric Klapisch per il suo “Appartamento Spagnolo” (2002) di studenti Erasmus — curioso sapere che il chiringuito che si vede nella scena in cui Xavier scrive alla sua fidanzata è reale sia come posizione sia come tipo di costruzione, ma il nome “El Chiringuito Barceloneta” che compare sul tetto se lo è inventato il regista stesso.
Tom Tykwer che ha seguito le fragranze delle sue vittime fino alla capitale catalana in “Profumo: Storia Di Un Assassino” (2006) e per girare la scena del mercato del pesce in Plaza de la Mercé nel Barrio Gotico ha usato due tonnellate e mezzo di pesce e una di carne, tanto che la gente del posto poteva fiutare lo sgradevole odore anche a 10 chilometri di distanza.
Manuel Huerga girò qui gran parte di “Salvador – 26 anni contro” (2006) e decise di filmare la scena iniziale del film nello stesso identico posto – all’incrocio tra Carrer Girona and Carrer Consell de Cent – dove le vicende si svolse realmente il 25 settembre del 1973 alle 6 del pomeriggio. Non è mancato nemmeno un nostrano, Giovanni Veronesi con la sua seconda lezione sul sentimento più ambito del mondo: “Manuale d’Amore 2 (capitoli successivi)” in cui Barcellona diventa il simbolo di quella Spagna liberale dei matrimoni gay e della riproduzione assistita.
Eppure non è nessuno di questi film che mi ha regalato, a Barcellona come a New York, quella sensazione “divano di casa”. Poco prima di partire — come buon auspicio per una felice permanenza nella città preferita di Gaudí — mi ero lasciata cullare dalle note delle chitarre spagnole di “Mezzanotte a Barcellona” (2007).
Woody Allen non è stato il primo a trovare nella scenograficità della capitale catalana un vero e proprio set cinematografico naturale, ma è stato sicuramente il migliore a rendere Barcellona una seducente protagonista del film — intenzione peraltro apertamente dichiarata nel titolo originale “Vicky Cristina Barcelona”.
Dalla finzione alla realtà, il salto non è stato, ovviamente, così romantico: nella Barcellona reale le strade e i parchi non sono armoniosamente avvolti dalle melodie melanconiche di sorprendenti chitarristi bohémien — ho scovato un solo, seppur strepitoso, musicista in un sentiero, non a caso, del singolare Parc Güell di Gaudí — e a mezzanotte un tavolo in un ristorante non lo si trova nemmeno stringendo una generosa mano al cameriere — per vivere la magia del ristorante a mezzanotte come i protagonisti del film, la scelta iberica ricade indubbiamente su Marbella d’estate.
Turisticamente parlando, però, “Mezzanotte a Barcellona” è un vero e proprio tour della città in una giornata di sole ad ottobre, con l’aria fresca e croccante che arriva dal Mediterraneo, i profumi accattivanti di ristorantini di cucina catalana, l’architettura mozzafiato, l’arte che ti circonda ad ogni passo e la gente, tanta e variegata.
La Barcelona Film Commission — un servizio pubblico che si propone di coordinare le riprese dei film girati in Catalogna e specialmente a Barcellona – ha registrato che nell’ultimo anno nella capitale catalana sono stati girati 55 lungometraggi, 425 documentari e 1300 tra spot e altre produzioni audiovisuali. E questo senza sconfinare nell’amatoriale.
Se oggi New York è un’affermata star cinematografica con tante statuette dorate sulla mensola del salotto, Barcellona è una promettente attrice i cui successi si contano ancora sulle dita di una mano. Entrambe, però, hanno un’indiscussa caratteristica in comune: una carriera senza tempo.