Solo sul birmano lago Inle si naviga tra orti galleggianti e pescatori che paiono camminare sulle acque perché conducono la loro barca remando con una gamba stando in piedi sul bordo, mentre attorno, distese di terreno cariche di frutti di lavoro contadino fluttuano al passaggio delle imbarcazioni dando la sensazione di essere posticce.
Solo in Myanmar, dopo avere lasciato alle spalle il giallo incolto di mille canne di bambù sull’attenti o il verde di remoti ettari appena coltivati, si vede sbucare improvviso il rosso mattone della tunica dei monaci in preghiera a fare da sfondo ad uno dei tanti templi buddisti, piccoli o grandi, di cui é disseminato tutto il Paese, dalle montagne fino all’acqua.
Poche righe aiutano ad immaginare cosa si può incontrare scegliendo di visitare l’ex Birmania, ma non basteranno pochi giorni per capire il suo popolo, gente minuta e molto bene riassunta nel mix di gentilezza/grinta della loro più nota e amata rappresentante, il Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.
Nonostante tutto, il Myanmar sta cambiando e lo fa a due velocità. La giunta militare al governo vuole che il Paese diventi presto una voce importante nel business asiatico, e per farlo ha anche costruito da zero una nuova moderna capitale Naypyidaw distante dalla costa e centrale rispetto all’ex capitale Rangoon (oggi Yangon), con la strada più larga del mondo (20 corsie), dove vivono solo 800 mila abitanti rispetto ai 5 milioni di Yangon.
Le risorse naturali di cui il Paese dispone fanno gola alle vicine nazioni. Le pietre preziose, di cui forse il più pregiato è il rubino sangue di piccione birmano, o il gas, che viene venduto a Thailandia, Bangladesh e a tutta la Cina, ne sono un esempio. Non a caso i cinesi hanno in progetto di costruire una grande ferrovia che unisca la loro Kunming al sud del Myanmar, senza dire del delta fluviale birmano talmente fertile da essere paragonato sovente a quello del Nilo.
Per noi occidentali comunque, il quotidiano delle sue principali città vive di contrasti curiosi. Ad ogni angolo si trovano cabine telefoniche che di notte vengono chiuse e l’accesso al telefono viene dato da un custode/cassiere notturno.
In ogni negozio è possibile trovare film americani o inglesi, rigorosamente censurati, ma al mercato nero con 1000 cen (1 Euro) si possono comprare 3 cd con i film originali. Sulle strade il parco macchine è per lo più nipponico e anni ’70, vecchie Mitzubishi e vetuste Toyota sfrecciano ovunque.
In periferia o in campagna, davanti ad ogni casa noterete appesi dei sacchetti di sabbia ed altri di acqua, a tutti gli effetti rappresentano l’attuale metodo per prestare i primissimi servizi anti incendio. Rispetto invece agli altri centri grandi, girando Yangon troverete un silenzio innaturale. Per legge, tranne i taxi che sono distinguibili dalle altre auto grazie ad una targa rossa, in tutto il perimetro cittadino è vietato suonare il clacson. E siccome guidare strombazzando é normale, la differenza di impatto acustico è notevole.
Se questa parte di Myanmar corre verso il nuovo, la maggioranza del popolo birmano pare vivere ogni giorno senza alcuna frenesia. Nella campagna i ritmi sono i soliti, legati indissolubilmente a quelli lenti della natura, la terra viene arata dai buoi condotti a mano dall’uomo, le donne lavorano indistintamente la campagna o rifanno il manto stradale, i più bravi raccolgono le noci di cocco arrampicandosi a piedi nudi sugli alti alberi, ovunque lavorazione di mattoni in cemento o terra rossa e insegne del Grand Royal, il whisky birmano che ha avuto premi mondiali.
Il mondo dei 500 mila monaci buddisti invece é un mondo a se stante. Di buon mattino si incontrano schiere di tuniche rosse, se maschi, o rosa, se femmine, con le loro ciotole in mano mentre fanno la questua bussando casa per casa. Ricevono cibo (soprattutto riso), che poi riportano ai monasteri per il pranzo comunitario delle 11 del mattino. Sarà l’unico pasto della loro giornata, ma essere monaco in Myanmar é una condizione che travalica la spiritualità e lo si percepisce subito.
Dopo essere atterrati a Yangon si raggiungono le mete che hanno reso famoso questo Paese, il lago Inle e l’impattante Bagan su tutte.
Come tutti i laghi di ogni parte del mondo anche Inle, dietro la parvenza di luogo di quiete, presenta mille cose da fare e vedere. In un’area di circa 22 km per 11, ci sono i 4 villaggi principali (su 60 in totale), 100 monasteri, 100 mila Intha, cosiddetti figli del lago cioé gli abitanti che vivono dentro le tipiche case palafitta di legno distribuite sui diversi rami lacustri e, soprattutto, ettari ed ettari di giardini ed orti galleggianti realizzati con ammassi di vegetazione, alghe, giacinti ed erbe acquatiche sulle quali gli Intha hanno sviluppato raffinate tecniche di coltura idroponica, in quanto tutto quacresce su acqua e non su terra ferma.
Dopo si naviga il canale Inndein, il più noto tra i viaggiatori perché vi si trovano vere e proprie rive disseminate di negozietti o di piccole imprese artigianali dove ad esempio ammirare la fabbricazione dei sigari piuttosto che quella degli ombrellini o delle sete. Infine, si lascia alle spalle il monastero Nga Phe Chaung, l’unico dove i ragazzi imparano l’antica lingua Pali e i gatti si esibiscono in salti, e, risalendo il canale si accede ad una parte dove, oltrepassando alcune dighe, si arriva all’area della pagoda più grande, la Paung Daw Oo.
Essere in barca al mattino presto regala una sensazione di sospensione, una sorta di bruma avvolge queste acque e fino al sorgere del sole nessun dettaglio si distingue chiaramente, se a questo si aggiunge che gli stessi orti con le coltivazioni, dai pomodori ai fagioli, dall’insalata alle cipolle, si muovono al vento pur essendo ancorate al fondo del lago con lunghe canne di bambù e che vengono coltivate dagli Intha restando a bordo delle loro canoe, la magia é unica.
L’altra meta da sempre obbligatoria per chi arriva in questa parte di mondo é Bagan, la Valle dei mille templi e visto che copre un’area di 42 kmq diventa singolare percorrerla su di un calesse trainato da un cavallino. Il paesaggio a perdita d’occhio sulla Valle di Bagan ammirata da uno dei templi sui quali può salire fino in cima, lascia sempre una grande emozione, sia che l’escursione venga fatta all’alba che al tramonto.
Ma non si potrà dire di avere visitato davvero il Myanmar se non ci si sarà spinti ancora più a nord fino a Mandalay, che non a caso vuol dire ‘centro dell’universo’, una città di cui raccontava già nel 1858 lo scrittore inglese Rudyard Kipling. E’ conosciuta come una sorta di città dell’arte grazie ai tanti laboratori artigianali divisi per quartiere, ogni strada una specializzazione, giada imperiale (la più pregiata), marmo, bronzo, foglie d’oro (un commercio molto legato alle offerte a Buddha), ombrellini, arazzi e marionette.
E non lontano c’è anche l’affascinante Amarapura con il famoso ponte in legno più lungo del mondo U-Bein, la Pagoda di Patodawgyi ossia il grande monastero in cui alle dieci di mattina si può assistere al pranzo dei monaci e la Pagoda di Kyauktawgyi.
Al di là del ponte, Inwa e Sagaing, con le loro innumerevoli pagode disseminate sulla collina, offrono l’ultimo suggestivo imperdibile colpo d’occhio.