Se sentite dire la parola Cook, non potete confondervi. Non penserete certo ad un cuoco stellato, ma immaginerete subito uno dei più suggestivi arcipelaghi del mondo. Quello della Polinesia neozelandese, o Cook Islands, 15 piccole isole nell’Oceano Pacifico Meridionale. Un luogo una garanzia perché, tra spiagge borotalco orlate di palmeti ed acque verdi celeste, si avvicina molto alla possibile idea di paradiso in terra.
Isole dove non ci sono pericolosi animali selvaggi, non strisciano serpenti velenosi e, a farvi sbagliare cadendo in tentazione, non avrete nemmeno la mela di Eva. Perché qua gli animali sono quelli classici da cortile, e, dalla frutta ai fiori, sarete attorniati soltanto dal trionfo di una buona dolce natura esotica, ananas, papaie, arance, banane che si intramezzano a piccole candide gardenie o a coloratissime bouganville, pronte ad inebriare tutti i sensi.
Se poi amate ballare, gli abitanti delle Cook hanno fama di essere i migliori ballerini della Polinesia e provate ad evitare lo stereotipo degli isolani che ondeggiano con i classici gonnellini di paglia, perché la hura, la danza ritmica delle Cook, in quanto a sensualità ha poca concorrenza e, forse, è eguagliata soltanto dalla tahitiana tamure.
Visitiamo Rarotonga, Mangaia ed Aitutaki, tre isole le cui diversità si colgono al primo sguardo, makatea compresa, quel fenomeno di coralli fossilizzati e rialzati, un basalto nero che, guardando l’effetto dall’alto, pare un anello di dura roccia che corre tutt’attorno al perimetro isolano. A Mangaia è larga anche fino ad un chilometro, tra le più grandi di tutto l’arcipelago.
Dopo essere atterrati a Rarotonga, tra palme da cocco e fiori tropicali, in mezzo ai quali si nascondono i rari alberi di pandano, a mezzo isolato ad est dalla rotatoria dell’aeroporto, ha senso fermarsi un attimo al palazzo dove Makea Takau, il supremo ariki della zona, cioè il capo massimo (ed ogni isola ne ha ancora uno), firmò nel 1888 il trattato con cui accettava lo status di protettorato britannico (oggi invece, le isole sono in libera associazione con la Nuova Zelanda).
Prima di lasciare Rarotonga per Aitutaki vale la pena visitare il piccolo Museo delle Balene, ideale per capire le specie di pesci che incontrerete in queste acque. E se poi avanzaste un po’ di tempo e aveste voglia di un dolcetto, approfittando di un giro nel centro della capitale Avarua dove anche chi ama lo shopping troverà pane per i propri denti, quelli di Tatiana accontentano i più golosi.
Ad Aitutaki, l’isola perfetta per chi intende vivere in acqua tutto il giorno, i cani non sono ammessi perché in un passato lontano la figlia del Re è stata morsicata e da allora i nostri amici a 4 zampe sono stati banditi. Qua infatti i gatti litigano soprattutto con i maiali. Dopo avere trascorso la vostra giornata immersi e persi nelle azzurre verdi cristalline acque dell’ampia laguna di Aitutaki, se volete fare una cena diversa, andate al Ristorante sulla spiaggia Samadi, Thomas vi proporrà cibi dai gusti speciali perché cucinati a cottura lenta direttamente sulle pietre vulcaniche. In menù anche la Bush Beer, fatta con la frutta fermentata, la cui produzione è iniziata con la proibizione dell’alcool da parte del Governo della Nuova Zelanda (infatti fino al 1974 era il medico che autorizzava l’acquisto di birra).
Mangaia infine, più delle altre due, è coperta da una fitta giungla di felci, rampicanti ed alberi imponenti, habitat ideale per la ricca avifauna dell’isola, compreso il pipistrello frugivoro del Pacifico, l’unico mammifero autoctono. E poi c’è la storia del naufragio del cargo Saragossa in transito dall’Australia verso San Francisco che nel 1904 incappò in un ciclone che rovesciò l’imbarcazione sui coralli mangaiesi. Mettendo a rischio la loro stessa vita, gli abitanti di Mangaia riuscirono a salvare 26 dei 27 membri dell’equipaggio, ed oggi davanti al luogo dell’incidente, praticamente a riva, troneggia la grande ancora arrugginita che nelle giornate di sole brilla in modo sinistro.
Mangaia comunque è l’isola più antica del Pacifico ed ospita molte grotte di pietra calcarea che fungevano da siti sepolcrali e da rifugi durante le guerre tribali, mentre l’interno di Mangaia è costituito da una zona acquitrinosa dove ora crescono ortaggi e soprattutto campi di taro, un’ottima gustosa verdura che si mangia in tante maniere. Al centro dell’isola ci sono laghi, precipizi e punti di osservazione spettacolari. Non fatevi ingannare: gli abitanti paiono poco loquaci ed altezzosi, ma se avrete modo di conoscerli li troverete cordiali e disponibili, anche se c’è stato un tempo in cui erano ostili. Non a caso, sebbene fosse stato dichiarato fuori legge già un secolo prima dell’arrivo dei missionari nel 1823, pare che i mangaiesi siano stati tra gli ultimi ad abbandonare il cannibalismo. E non ne vanno fieri.
Guardandole nella loro interezza da sotto il mare, le tre isole sono a tutti gli effetti degli altissimi vulcani spenti quasi del tutto sommersi, dei pilastri nell’universo sottomarino che si ergono verso il cielo fino a farne affiorare una parte, là dove gli uomini abitano, hanno costruito le loro case e vivono la loro vita senza smog. E dove noi viaggiatori arriviamo ed abbiamo modo di godere delle sorprendenti meraviglie senza fine di questi territori chiamati Isole Cook.