Chiapasiónate.
Così leggiamo non appena atterrati all’aeroporto di Tuxtla Gutierrez, un benvenuto ancora più gradito considerato il terremoto dello scorso settembre. E dopo avere percorso i magici itinerari di questa fetta di Messico possiamo dire che il Chiapas è turisticamente in piedi, perché tranne qualche chiesa ancora inagibile e qualche vecchia casa puntellata, la sua bellezza è la stessa di sempre.
Siamo nel sud, in quella parte di stato che ancora resiste alla speculazione edilizia e che, nonostante il turismo sia una realtà oramai affermata, propone alternative per non cadere in toto nel modello di massa, per regalare ai viaggiatori emozioni, colori, cibi e sorprese che difficilmente si trovano tutte insieme in altre parti del mondo. Il risultato immediato è quello di accorgersi di visitare una terra genuina ed autentica dove le comunità indigene restano la pietra miliare di uno stupore continuo. Ognuna con la propria storia, ognuna con il proprio sincretismo religioso, ognuna con un quotidiano dove le genti dei villaggi sono impregnati di tradizione e religioni intimamente connesse ed inseparabili.
E sebbene per le donne sia in atto un continuo processo di evoluzione che farà fare loro un salto di anni luce in avanti rispetto alle attuali possibilità di decisione e di uguaglianza con gli uomini, certamente per qualche lustro chi visiterà il Chiapas godrà di uno sguardo privilegiato, uguale dalla notte dei tempi.
Noi abbiamo tenuto come base San Cristobal de Las Casas, proprio laddove un anno fa è atterrato Papa Bergoglio a chiedere perdono alle popolazioni indigene per le sistematiche esclusioni e le spoliazioni delle loro terre. Anche noi qui, e non altrove, perché punto ideale per effettuare delle visite davvero interessanti.
Come quella della navigazione del fiume Grijalva dove ammirare le pareti verticali alte fino a 1 km del Canyon Sumidero, databile come il Grand Canyon dell’Arizona.
Siamo nelle cosiddette ‘terre alte’ della nota penisola dello Yucatan (per orientarci, in quelle basse c’è Cancun), un territorio carsico (friabile) e calcareo che grazie ad una serie di dighe produce il 60/70% dell’energia nazionale, un fiume dove entrare in contatto con una fauna autoctona di coccodrilli, cormorani, pellicani, aquile, iguane, avvoltoi, scimmie ragno che rendono questa alta selva un patrimonio faunistico adatto ai più esigenti animalisti e birdwatching del pianeta.
Un luogo dove c’è stata una terribile battaglia, anche se dai libri di Storia ci viene consegnata come un suicidio di massa degli Indios i quali, per non soccombere agli attacchi dell’esercito del colonizzatore Diego de Mazariegos, nel 1532 si gettarono dal punto più alto del canyon. Nessuno ci crede ovviamente, ma sicuramente durante l’invasione dei Conquistadores un fatale scontro si è tradotto in morte per chi difendeva la propria terra.
Tornando a San Cristobal passiamo qualche ora al mercato, camminando tra donne che sedute per terra a bordo strada vendono i loro scialli tessuti e ricamati a mano, mentre nei banchetti al coperto troveremo molti prodotti che rincontreremo nelle giornate a seguire tra gli usi abituali degli indigeni chiapanechi, come è il caso delle candele dal collo lungo, oppure dei ramoscelli di incenso, delle galline vive e degli oggettini di coccio a forma di recipienti, che si alternano a saponi fatti con il grasso del maiale, o a quelli fatti con la zucca, questo ultimo ottimo detergente per pulire le scarpe da ginnastica.
Ci perdiamo nel reticolato detto “recinto spagnolo”, cioè l’area dove un tempo vivevano solo e soltanto le autorità e i cavalieri, quegli assi urbani fatti a croce che hanno formato i cosiddetti corridoi ecclesiastici in seguito all’arrivo di religiosi carmelitani, domenicani e francescani che in modi diversi hanno evangelizzato anche gli indios.
E dopo un giro tra il Tempo de Santo Domingo e la movimentata Plaza 31 de Marzo con la cattedrale e il palazzo municipale, visitiamo anche il Museo dell’Ambra e quello della Cultura Popolare. Ma su tutto, siamo restati impressionati dalla visita al Museo dei Costumi Regionali (trajes regionales) resa oltremodo interessante dall’incredibile competenza abbinata ad una stupefacente storia personale del Direttore, un ingegnere, agronomo e medico di nome Sergio Castro (a lui prima possibile dedicheremo un articolo a se stante, perché visitare questo Museo significa anche sostenere il suo lavoro di decennali cure gratuite agli indigeni diabetici gravi, infatti i costumi sono doni che gli arrivano dalle diverse Comunità).
Soltanto il giorno seguente ci spostiamo nelle strade di Chiapa de Corzo, la città più antica del Chiapas per lasciarci sorprendere nella piazza principale dallo stile mudéjar (termine spagnolo derivato dalla parola araba mudajjan dovuto al dominio musulmano) della Fuente de La Pila del XVI secolo, un abbeveratoio arabo musulmano monumentale ottagonale in mattoni dal colore rosso acceso, caratterizzata da archi e un tetto a cupola; si ritiene che la sua forma intenda richiamare quella della corona spagnola.
E se l’antica lingua nahuatl oggi non è più praticamente utilizzata, nello Stato del Chiapas vengono parlate almeno altri 10 idiomi, tra cui il Tzotzil e il Tzeltal, che avremo modo di ascoltare meglio durante le visite tra i chiapanechi delle comunità dei magici villaggi di San Juan de Chomula e di Zinacantan, perché nulla affascina maggiormente che vivere i locali.
A Zinacantan, che in Tzotzil significa luogo di pipistrelli, gli indigeni paiono amicali, ma si percepisce un poco di diffidenza, anche se non manca l’abitudine al contatto straniero perché questo villaggio nel Golfo del Messico storicamente era un corridoio di mercanzie e traffico utilizzato come scorciatoia per andare dal Pacifico all’Atlantico. Si dice anche che qui all’epoca si praticasse tranquillamente l’omosessualità e la donna non fosse vista soltanto per la procreazione, ma altresì per il soddisfacimento sessuale.
Lasciamo per ultimo San Juan de Chomula perché, al di là del piccolo municipio, la colorata chiesetta ci regala l’esperienza più indelebile di tutto il viaggio. Prima dell’ingresso veniamo avvisati di non fare foto o video in quanto chi trasgredisce può finire addirittura in prigione e i capi della Comunità non intendono ragioni di sorta (anche se poi ne abbiamo trovate).
Già l’esterno con i suoi accesi colori, ognuno per un punto cardinale, giallo sud, bianco nord, rosso est e nero ovest, racconta come questo edificio sia considerato da tempo immemore il centro dell’universo.
Ma è l’interno il vero incanto di atmosfera. La moquette di aghi di pino sparsi su tutto il pavimento emana profumi di vette, la copertura al tetto è fatta di arazzi a forma di V che rappresenta sia la montagna che l’utero materno, molti tavoli di legno disposti anche in mezzo hanno sopra decine di candele accese alte fino a 1 metro, non ci sono panche dove sedersi e nemmeno un altare a cui fare riferimento. Ai due lati, come sentinelle una in fila all’altra, ci sono grandi teche vetrate con dentro le statue di molti santi, ed in fondo, dritta alla fine della navata, c’è quella del patrono San Juan.
In ogni angolo e spazio si stanno compiendo dei rituali a favore di guarigioni ad opera degli sciamani, mentre un omino con recipiente in mano passa a togliere e raccogliere la cera colata e consolidata da questi molteplici riti della speranza.
Nel frattempo, noi osserviamo una madre che mostra alla sciamano donna la foto del figlio malato e mentre lei offre una gallina viva, la guaritrice beve coca cola, sputa Posch, accende con un rapido gesto decine di candele imbevendole tutte insieme nella cera liquida bollente e, come danze, muove la foto e le sue mani sul fuoco vivo, tutto questo citando formule e cantando a bassa voce delle nenie a noi incomprensibili, fino a quando incrocia la nostra attenzione e ci lancia saette fulminanti con occhi cattivi, facendoci indietreggiare almeno un poco.
Descrivere purtroppo non basta, bisogna esserci per capire. Perché tutto il Chiapas, rispetto alle esperienze vissute, resta un viaggio che lascia senza sufficienti parole.