A nord dell’India, tra le colline che accarezzano la catena himalayana, si trovano Haridwar la città dalle porte divine e Rishikesh la città benedetta da un’intensa atmosfera mistica. E’ infatti da questa parte del grande subcontinente indiano che si dice entrino tutti gli dei. Non solo perché siamo ai piedi dell’Himalaya e vicinissimi alla confluenza dei due fiumi Alakananda e Bhagirarthi che formano il venerato Ganga (come i locali chiamano il Gange), ma anche perché queste città sono considerate sacre da tutti gli hindu. Che la zona sia oggetto di pellegrinaggio costante, ve ne accorgerete subito. Per strada insieme a voi cammineranno santoni con bastoni e facce dipinte da simboli, viandanti vestiti di stoffa con turbanti arancioni e folte barbe, donne dalle lunghe trecce e il corpo avvolto in colorati raffinati shari, uomini in punjabi, il classico vestito lungo, mucche sacre sdraiate nei belvedere al posto dei turisti, gente dalle fronte segnata di rosso abituata a camminare scalza convinta che il loro dio li guiderà fino alla fine del viaggio.
Tra le due cittadine ci sono circa 30 km, ma per i pellegrini restano un tutt’uno indivisibile perché l’unica frequentata via di accesso indiana per chi è diretto alle più alte vette dell’Himalaya. Siamo nelle terre dei maestri del Kriya Yoga, dove tutti si sentono parte di una famiglia spirituale, anche chi non pratica o conosce le tecniche di questa disciplina. Arriviamo a Haridwar nel primo pomeriggio e la riva destra del Gange, ai piedi delle montagne Shivalik, riflette la potenza di antichi pellegrinaggi, compresi quelli dei milioni di fedeli che, ogni 12 anni, per il famoso Kumba Mela, arrivano anche qui da ogni parte del mondo. Dall’alto della sua mole ci osserva l’enorme statua di Shiva che fa da faro a tre importanti templi arroccati sugli speroni montuosi che incorniciano il Gange. Visitiamo quello di Chandi Devi e per salire prendiamo la cabinovia pagando qualche rupia, ma risparmiandoci due o tre ore di marcia. La giornata, ancora sufficientemente chiara, ci permette così uno sguardo d’insieme sulla zona. In lontananza scorgiamo gruppi di uomini, donne e bambini che si bagnano vestiti nei loro abiti migliori nel fiume sacro, a purificarsi di tutto.
Quella stessa luce riflessa dall’acqua del fiume, qualche km più avanti e il giorno dopo, renderà brillanti i tiranti d’acciaio di Lakshman Jhula, il lungo ponte moderno, oscillante e abitato da scimmie che a Rishikesh unisce entrambe le rive del Gange. Tutto prova che l’avventura dell’anima è iniziata, oltrepassando quelle ideali porte degli dei dalle quali indirettamente prende fama la città, anche la persona meno coinvolta non potrà non essere influenzata da una spiritualità che avvolge tutto. Perché la città dei rishi (i veggenti autori dei libri Veda) è oggi la capitale mondiale dello yoga, te lo ricordano le decine di cartelli che ne pubblicizzano i corsi, le centinaia di Ashram nascosti dietro ogni porticina e gli incontri con i migliaia di sadhu, coloro che scelgono di vivere una vita di santità, presenti in India da migliaia di anni. E ci fu un tempo, nel lontano 1968, che questa cittadina, unicamente dando rifugio allo spirito di quattro uomini illustri che arrivavano da Liverpool, divenne famosa anche in Occidente. Era il momento dei Beatles che cantavano All You Need Is Love e che presso la corte del Maharishi Mahesh Yogi s’ispirarono per comporre ‘Happiness Is A Warm Gun’ e tutte le altre canzoni del White Album. L’appuntamento imperdibile è ogni sera al calare del sole sulle rive del Gange per assistere al Ganga Aartic, una cerimonia religiosa inno alla vita, cantata al cospetto di un altro gigantesco Shiva posto dentro l’acqua. Giovani monaci buddisti, indifferenti alla presenza di turisti viaggiatori, pregano con gli occhi chiusi o rapiti dalle fiamme ipnotiche che ardono dentro un apposito piccolo cratere in muratura dove vengono bruciate essenze indiane e ramoscelli. Il sottofondo musicale è dato dal suono squillante di piccole campane suonate a ritmo di una nenia che pare un mantra.
E alla fine, il testimone fiammeggiante dalla testa di cobra passa di mano in mano in segno di avvenuta amicizia con gli dei mentre il sole svanisce e le luci artificiali si accendono per tenere in memoria queste giornate che dovrebbero correre lente dentro una rinnovata pace interiore. Tutti si allungano per toccare la fiamma. L’ultima tappa del nostro viaggio è a 1300 metri di altitudine verso la frontiera con il Tibet. Mentre saliamo per raggiungere l’Ananda, uno dei migliori Centri di meditazione e Spa del mondo, incrociamo una famiglia di nomadi con cavalli, muli e la casa appresso. La strada cambia in fretta di dislivello e si fa ripida, ma anche la segnaletica qui pare seguire una filosofia zen con frasi inusuali per dei cartelli, parole spiritose ma profonde. Le più simpatiche sono “No hurry, no worry”, “Alert today, alive Tomorrow” e “Licence to drive, not fly” posto in una curva sullo strapiombo, ma anche l’azzeccatissimo “Speed thrills, but kills” invitano alla prudenza. Quando si arriva all’Ananda si comincia a vivere la quotidianità immersi tra lezioni di yoga, trattamenti ayurvedici, squisiti e dietetici menu, viste impareggiabili sul presepe di Rishikesh e si è colti così da una strana mistica sensazione. La stessa che sempre si ha quando una volta rientrati, si ripensa all’India: si è lasciato fuori il mondo intero. Per questo si dice che l’India cambia e pare sia per sempre.