Dall’alto l’isola appare come uno smeraldo cangiante, ma anche Colombo, che dalla sua nave nel maggio del 1494 ne scorse soltanto un piccolo lembo di costa orientale, ne intuì la bellezza d’insieme. Il nome originale Xaymaca, o ‘terra delle sorgenti’, anticipa una delle sue tante ricchezze, ma non sarà questo a farla conoscere perché da sempre in Giamaica pare essere in corso un’alleanza tra uomini che ne porta la fama lontano.
Uno tra questi è lo scrittore inglese Ian Fleming che, fresco sposo della contessa Anne Geraldine Rothermere Charteris, per sconfiggere la noia della vita coniugale nei tre mesi trascorsi annualmente nella baia giamaicana a GoldenEye, si mette al lavoro al primo romanzo di una serie di 14, di cui almeno 5 ambientati qui. Si tratta di Casino Royale, le pagine che presenteranno al mondo James Bond, l’agente segreto britannico per antonomasia e anche Fleming ha confessato che Bond, forse, non avrebbe lo stesso fascino se ad ispirarlo fosse stata un’altra terra.
Noi abbiamo fatto base al Bahia Principe sulla Runaway Bay (una meravigliosa struttura dove non ci si annoia nemmeno se si desidera stare fermi, e ideale perché equidistante dalle visite principali) a nord dell’isola tra palmeti e spiagge borotalco ed é curioso scoprire, chiacchierando con il bravissimo barman Antonio, che il nome di 007 é stato trovato da Fleming causalmente su una bibbia dell’ornitologia, Birds of the West Indies di James Bond.
La casa di GoldenEye, invece, si trova nei pressi di Oracabessa ed é diventato un delizioso resort extra extra lusso che si affaccia sia sulla rigogliosa laguna che sull’Oceano. All’interno della proprietà, le riviste sul cinquantenario di Bond sono appoggiate tra gli oggetti preziosi quali il ringraziamento di Sting che, manco a dirlo, ispirato dal luogo, proprio qui ha scritto Every Breath You Take, disco d’oro del gruppo The Police. Una moltitudine di variopinti quadretti di Albert Artwell, un ottimo pittore giamaicano, fanno da greca a due pareti e nel parco di decine di ettari ogni pianta porta la targa di gente famosa che ha sostenuto l’Aracabessa Foundation, organizzazione che aiuta i piccoli indigeni in povertà.
Per GoldenEye hanno ‘piantato l’albero’ da Grace Jones a Johnny Depp, ma non mancano gli italiani, dalla famiglia di Marco Fila a quella di Romana Fabbris. D’altronde alla morte di Fleming, la casa é stata acquistata da Chris Blackwell, una potenza in campo discografico, colui che produce band musicali altisonanti, dagli U2 allo stesso Bob Marley. Quindi non stupitevi se tra i lettini da sole immacolati vi parrà di scorgere Beyoncé.
Diversa sorte ha avuto invece Firefly, la casa del commediografo inglese Noël Coward che alla sua morte ha lasciato tutto al governo giamaicano. Siccome si trova sulla collina con una vista eccezionale a 360 gradi, prima di Coward la scoprì per i suoi avvistamenti il pirata Morgan.
Oggi, a pochi metri dalla tomba e dalla scultura che ritrae l’artista con lo sguardo sull’infinito, si celebrano i party di matrimoni costosissimi. E magari Coward, così eccentrico ed istrionico, sarebbe contento di questo epilogo, lui che in questa casa ha ospitato grandi nomi, dalla regina Elisabetta, a Audrey Hepburn, a Sofia Loren.
Nelle vicinanze, non bisogna perdersi le Dunn’s River Falls, tra le più belle cascate giamaicane che si possono anche risalire a piedi e la Cover Dolphin, dove si può fare il bagno con i delfini e ricevere anche un loro bacio (come dimostra la foto dell’attore Ben Stiller).
Da non trascurare nemmeno i due Parchi di divertimento tra i più innovativi del mondo. Nel Mystic Mountain, oltre a scivoli d’acqua e zip line chilometriche, c’é un bob slitta con il quale i più coraggiosi potranno spingersi anche a 60 kmh sfrecciando nella giungla (la guida racconta che ci si sia cimentato anche il wrestler Hulk Hogan).
L’altro si chiama Chukka Caribbean Adventures, e, lo dice il nome, propone divertimenti forse ancora più sfrenati; quello che sta ottenendo molto successo é il cavalcare a pelo d’acqua nell’Oceano, una cosa che divertirebbe tantissimo anche le nostre due amazzoni appassionate Natalia Estrada e Katia Noventa.
Tornando ai famosi incontri che la Giamaica regala abitualmente, se non altro indirettamente, forse gli ultimi due surclassano i precedenti.
Sin dall’aeroporto, sia che arriviate a Montego Bay sia nella capitale Kingston, riconoscerete il figlio del vento: Usain Bolt trionfa dappertutto sui grandi manifesti Digicel, il gestore colosso che copre non solo i Caraibi. Ammesso non sia in giro per il mondo per allenamenti, lo ritroverete più tardi anche seduto al suo Tracks And Records, uno sport bar ristorante che ha aperto nella capitale. Bersi un boccale della locale leggera birra Red Stripe aggiunge sapore al viaggio.
Da sempre in Giamaica pare essere in corso un’alleanza tra uomini che ne porta la fama lontano
Last but not least (per ultimo, ma non ultimo), ci mettiamo sulle tracce di Bob Marley, il rastafari del reggae, colonna sonora di tutto il viaggio giamaicano e andiamo sulla sua tomba a Nine Mile, il piccolo villaggio sulle montagne interne Ocho Rios dove il musicista visse la sua infanzia.
Prima di arrivare ci fermiamo al mercato di Browns Town un importante distretto scolastico per mangiarci assieme ad un patti farcito (una via di mezzo tra pizza e pane arabo) un assaggio di ackee and salt fish (l’ackee é un frutto nazionale, e viene servito con uova strapazzate) e un piatto di jerk di pollo, con la stuzzicante squisita salsa locale (non perdetevela).
Il corpo di Marley riposa dentro un mausoleo di marmo bianco alto oltre due metri, a fianco una Gibson Les Paul, la sua chitarra preferita, una manciata di marijuana, il suo pallone da calcio e la sua Bibbia che spicca tra un paio di lettere lasciate da due bimbe di mondi distanti, Meshech Wiggan una ragazzina dell’Ontario e Shanique Bortley che vive qui, tutte due scrivono “Avrei voluto conoscerti” riassumendo il pensiero di migliaia di visitatori che arrivano emozionati, cantano le sue canzoni insieme a Captain Crazy, la guida più titolata (e con una voce stupenda) ed escono dalla sua spartana stanzetta di bimbo con gli occhi lucidi. Sugli alberi appena fuori il Doctor Bird (l’uccellino nazionale a due code) ci incanta con i suoi svolazzi.
Da qui, dopo avere visto la restaurata coloniale Devon House, raggiunta l’impareggiabile National Gallery, forse la più interessante dei Caraibi con molte sale dedicate alla pittrice Edna Manley, mentre finiamo al Museo di Marley a Kingston, le Blue Mountains ci sfilano sotto gli occhi.
La vegetazione è generosa di frutti, yucca, banane, mele, uva e questo speciale caffè che prende il nome dalle Blue ‘montagne dei tropici’. Ovunque grandi produzioni di yam (un tubero simile ad una patata, leggermente più dolce) e piccole produzioni di tè interrotti da improvvisati campi da calcio, la cui erba viene arata dalle tante caprette libere che ritroviamo in tutta l’isola.
Davanti al Museo, quei quattro gradini dove l’artista si sedeva durante le interviste e la statua di Marley in bronzo con la mano alzata verso il cielo, attorno variopinti murales di lui mentre canta, il suo volto in evidenza tra quelli dei figli. All’interno stanze completamente tappezzate di articoli di ogni parte del pianeta, dischi di platino, diamante, i ricordi di una carriera fulminante, il suo oleogramma ad altezza esatta.
E alla fine la parte privatissima, quel grande letto in azzurro, con la foto del Re etiope Hailé Selassié sopra la testata, il re del rastafarianesimo, la fede religiosa che ha influenzato Marley legando così i colori del reggae a quelli della bandiera etiope.
L’ultimo giorno in Giamaica lo dedichiamo al sole e al mare, a Port Antonio con la sua Blue Lagoon, o a Montego Bay, che la scegliamo alla bella Negril perché meno caotica e mondana, per l’immersione tra i pesci e i colori della parete The Point.
Solo alla fine, proprio in chiusura di giornata ci fermiamo a comprare un quadretto al handcraft market cittadino. E inizia la caccia al tesoro, un dipinto in bianco e nero, i meno facili da trovare perché difficili da dipingere che si ispirano alla tecnica del grande innovativo pittore indigeno John Dunkley.
Quadri intensi, in grigio, ma niente affatto cupi. Che non si dimenticano, proprio come la Giamaica, che si è rivelata essere la vera isola dei famosi.